venerdì 4 aprile 2014

Alla ricerca di Vivian Maier di John Maloof e Charlie Siskel

Quando ero bambina c’era la mamma, il papà e la Ia. La Ia era la mia tata. Ovviamente questo non era il suo vero nome, ma quello che le avevo affibbiato io che, troppo piccola per poter pronunciare la parola “Signorina”, l’avevo abbreviata in Ia. Fu assunta dai miei genitori quando io e i mio fratello eravamo piccolissimi. Ha visto mio fratello minore nascere. Ci ha tirati su. Ha smesso di lavorare per la mia famiglia solo quando i miei genitori si sono separati e hanno chiuso la casa dove abbiamo sempre abitato. Avevo ormai 32 anni. Ho continuato a fare visita alla Ia fino a quando non è morta, due anni fa, a 84 anni. In tutti questi anni non credo di aver mai saputo bene chi fosse questa donna che ha trascorso e offerto la sua vita, insieme al sacrificio del suo nome proprio, a me, ai miei fratelli e ai miei genitori. Non serviva. Lei era vera, reale, in quanto la mia tata. Al di là di questo nient'altro sembrava necessario. In casa nostra, in quella che è stata anche la sua casa per più di trenta anni, aveva la sua camera, tenuta come una piccola sagrestia. Ordinatissima, piena di immaginette religiose e di foto di famiglia, questo era l’unico luogo dove la Ia tornava Anna e per questo difeso fermamente contro i nostri tentativi di forzare uno spazio per lei sacro. Non credo che la camera di Vivian Maier fosse così ordinata, ma penso che con la mia Ia abbia condiviso lo stesso bisogno di segretezza per arginare una vita alla mercé degli altri.
Vivian Maier è la protagonista di un documentario, “Alla ricerca di Vivian Maier”, di John Maloof e Charlie Siskel distribuito da Feltrinelli Real Cinema. Vivian era una tata. Per 40 anni ha tenuto bambini altrui, vissuto in case altrui, abitato letti altrui. E fatto foto. Per decenni la Maier ha scattato più di centomila foto, girato centinaia di filmini, inciso decine di audiocassette e accumulato giornali e quotidiani in pile altissime e pesanti che finivano per incassare il parquet della sua stanza. Ma durante la sua lunga vita (la Maier è morta nel 2009 a 83 anni) non ha mai pubblicato e spesso neanche sviluppato un solo negativo.
Dall’alto del suo metro e ottanta di altezza questa donna dal grande naso, che sembra uscire da un film di Jacques Tati (sua madre era francese e lei stessa ha trascorso lunghi anni della sua infanzia in un paesino sperso nelle montagne savoiarde), ha percorso chilometri di strada con comode scarpe piatte, larghi cappottoni e berretti dall’ampia falda riprendendo con l’onnipresente Rolleiflex al collo tutto ciò che vedeva per strada - vecchie signore impellicciate, bambini piangenti, barboni sul ciglio della strada, animali morti, vecchie bambole buttate nel cestino – tutte immagini che non avrebbero mai visto la luce se non fosse stato per un caso fortuito. Nel 2007 a un’asta John Maloof entrò in possesso di alcuni dei suoi rullini e da allora, con una determinazione ammirevole, è riuscito a recuperare la maggior parte del materiale della Maier, che oggi è considerata una delle grandi fotografe del '900 con mostre in tutto il mondo. 
Negli anni Maloof ha ritrovato anche centinaia di altri scatoloni nei quali la Maier aveva accumulato nel tempo i suoi effetti personali. Una moltitudine di oggetti che nel corso della sua vita hanno significato qualcosa per lei e che ha forse conservato per creare come  Pollicino, una sorta di sentiero segreto,  visibile solo a occhi esperti e desiderosi di raggiungere una zona molto vicina al suo cuore e alle sue emozioni più profonde. Ma non successe mai. A una signora che una volta le chiese cosa facesse nella vita, Vivian Maier rispose che era una spia. Certo, con la sua macchina fotografica la Maier spiava persone, cose e animali. Ma soprattutto, come una spia, la Maier conduceva una doppia vita: una socialmente accettata, visibile, contornata da bambini e dalle famiglie di questi. E poi c’era l’altra vita. Quella di una donna solitaria, eccentrica al limite dell’alienazione, che ha fatto fotografie bellissime, profondamente empatiche verso un mondo che riusciva a leggere con incredibile lucidità.  Nella sua solitudine, oltre alle foto di strada, la Maier ha anche scattato decine di autoritratti, quasi nel tentativo di ridisegnare la sua identità al di fuori di quella ordinatamente offerta a coloro che la ospitavano.
Io credo che il senso di questo film sia soprattutto di quanto sia impossibile conoscere la reale essenza di una persona, di quanto sia difficile per tutti noi entrare davvero in contatto con i nostri simili e come, al tempo stesso, questo imponente desiderio di mostrarci agli altri per come siamo veramente e metterli a parte del nostro mondo interiore sia la cosa che più di ogni altra ci tiene su questa Terra e ci fa andare avanti con l’esistenza che ci è data.

domenica 29 gennaio 2012

Hugo Cabret di Martin Scorsese

Da giovane non capivo a cosa servissero i registi. Quando c'era la premiazione degli Oscar mi dicevo "Ok, ai migliori attori è ovvio. Ok, ci sta quello alla sceneggiatura, alla musica, agli effetti speciali, ai costumi. Ma ai registi? Cosa fanno i registi? Giusto fare un po' d'ordine fra le scene e dire "azione" quando serve e poco altro". Poi un giorno ho visto Toro Scatenato di Scorsese. E mi si è aperta una coulisse. Ho improvvisamente capito ogni inquadratura, ogni sfumatura della recitazione, ogni scelta... tutto. Ho capito cosa vuol dire fare il regista. Ho capito cosa vuol dire essere un grandissimo regista. Essere Martin Scorsese. E non l'ho mai più dimenticato.
Hugo Cabret è il primo film "per famiglie" di Scorsese. E' tratto da un libro per ragazzi di Brian Selznick, il bisnipote di quel David O. Selzinck che ha fatto il cinema, il produttore di Via col vento per intenderci. Il film è in 3D. Nella prima scena la macchina da presa, dopo un'inquadratura dall'alto di Parigi fra i fiocchi di neve che ti vengono incontro, s'infila velocemente nella banchina fra due treni fermi e la percorre fino in fondo, a rotta di collo, fra la gente, gli oggetti, le cose fino ad arrivare al fondo della stazione. E la scena è così bella che uno pensa "Eccoci di nuovo qui Martin" e si accoccola meglio nella poltrona. La storia è quella di un orfano che vive nelle soffitte della stazione dove dà la carica a tutti gli orologi del luogo e vive insieme a un'automa di metallo ultima cosa rimastagli dal padre. Per questo il suo unico pensiero è quello di riuscire a riparare l'automa e per farlo rubacchia i pezzi necessari al burbero proprietario di un negozietto di giocattoli all'interno della stazione, che però lo scopre e gli requisisce il taccuino con gli appunti del padre. Nel tentativo di recuperarlo, Hugo scopre molte cose, aiutato dalla figlia adottiva del negoziante. Soprattutto la vera identità di quest'ultimo, che si rivela essere Georges Melies (un Ben Kingsley truccato in modo tale che sembra pronto per interpretare un biopic su Luigi Pirandello), considerato il padre del cinema dopo i fratelli Lumiere. Avete presente quell'immagine della luna nel cui occhio atterra un missile? Bè, lui è quella cosa li. 
A farla breve, Hugo Cabret non è altro che il ringraziamento di Scorsese a chi ha fatto il suo cinema, a chi come lui ha sognato il sogno del cinema. E tutte le parti in cui Martin cerca di trasmetterci lo stesso stupore che deve aver provato lui di fronte alle immagini, alla creazione, all'invenzione sono veramente bellissime. Quando segue le esplorazioni di Melies, le sue scenografie oniriche, le comparse vestite da aragoste, quelle da fantasmi o quelle da ladroni, si sente che Scorsese sta godendo come un riccio e lo stesso succede a noi. Poi il film secondo me ha un quarto d'ora che non sarebbe stato male tagliare e alcune parti con i bambini sono un filo noiose. Ma Asa Butterfield, il protagonista è una meraviglia e lo vorrei incontrare fra 20 anni. Peccato che io ne avrò 70. E che le aragoste saranno andate a male.

mercoledì 18 gennaio 2012

Paradiso Amaro (The Descendants) di Alexander Payne

Iniziamo con le cose negative che, notorimente, sono sempre quelle più divertenti. Mai viste così tante brutte camicie hawaiiane. In quasi due ore di film non ce n'è una che si salvi. 
E poi la scoperta che a volte la musica locale ha preoccupanti similitudini con gli jodel tirolesi, melodie che spiazzano quando aassociano  palme e crauti.
Paradiso amaro, l'infelice titolo scelto in Italia (forse l'influenza dalla crisi) per il film The Descendants, di Alexander Payne e con George Clooney, si è appena aggiudicato due premi importanti ai Golden Globe di qualche gionro fa. Migliore film drammatico e migliore protagonista maschile. E se po' ffa.
La storia non ha niente di sorprendente. Una moglie in coma dopo un brutto incidente in mare, un marito frastornato, tale Matt King (George), due figlie, l'adolescente Alexandra (Shailene Woodley) e la decenne Scottie (Amara Miller) che reagiscono in modo diverso all'assenza della madre. Sullo sfondo, la vendita del trust familiare di un territorio incontaminato, gestita proprio da Matt.
Tutto questo si svolge alle Hawaii, un gran brutto posto pare, la dimostrazione che ovunque vadano, gli americani riescono a fare un bel danno d'immagine e a trasformare qualsiasi territorio in una specie di immenso golf per provincialoni. Del resto lo afferma anche il protagonista nelle prime battute iniziali, quando dissuade chiunque a invidiarli. Sono con te, Matt.
All'inizio c'è un uso esagerato della voce fuori campo del protagonista, costretto a spiegare un bel po' di cose all'ignaro spettatore, ma quando esce fuori la notizia fondamentale, che la moglie l'ha tradito, lì le cose si fanno interessanti. E non perchè inizino i flashback con le scene di sesso. 
La recitazione del buon George si fa sempre più asciutta, man mano che sale il dolore, l'incapacità, le difficoltà. E accanto a lui le figlie non tradiscono nè le sue aspettative nè le nostre con una recitazione altrettanto pulita. E alla fine, mentre si segue il normale racconto di un addio non solo a una madre che muore, ma anche a tutta una vita per come è stata vissuta fino ad allora, ci si chiede come facciano quei cialtroni di americani, quelli stessi che hanno rovinato con i grattacieli e il cattivo gusto mezzo mondo, come riescano in un film senza grandi colpi di scena, a calibrare il dolore e i sentimenti con signorilità. E' per questo che penso che il buon George si sia meritato il premio. Come Matt King è riuscito a contenere ogni gigioneria e a far dimenticare l'orrenda wrestler con cui si accompagna attualmente. Una menzione speciale alla corsetta che fa da casa sua a quella dei vicini amici. Se è naturale, è veramente bizzarra, se è recitata è ben recitata.
Ottimo anche Robert Foster, nella parte del suocero che dà l'ultima carezza alla comatosa, e Amara Miller (nomen omen) in quella della figlia piccola che piange una volta sola, ma con sorprendente capacità.
Finite le Hawaii, fuori al cinema ci aspettavano freddo polare e nevischio. Datemi un hukulele.



mercoledì 26 maggio 2010

La regina dei castelli di carta di Daniel Alfredson

Fa così piacere vedere ogni tanto un film in cui sono tutti brutti. Per una volta la fotografia invece di levigare visi e paesaggi, sembra enfatizzare le rughe, le crepe, le mestizie.
L'ultimo episodio della saga del Millenium scritta da Stieg Larsson, è meno violenta delle altre, ma non per questo meno allarmante. Basta un sasso tirato contro una vetrata per farti sobbalzare sulla poltrona come se stessero squartando un bue. Il ritmo a me è parso buono, anche se non c'è niente di speciale, il film è scolastico ma in questi casi io non ci vedo grandi problemi. Agli amanti di Larsson l'idea di un film che segua pedissequamente le pagine del libro dà sicurezza, sono finestre visive che si aprono sulle parole. 
Ma il punto che mi preme descrivere è proprio la bruttezza di tutti. Che mi è parsa rinfrescante, se non proprio un manifesto pro Svezia.
A Erika il volto è prolassato, Michel ha la pelle più butterata che mi sia stato dato vedere, Lisbeth ha  i pori aperti e il Pubblico Ministero ha la dentatura di Provolino. Stoccolma pare una città triste e bagnata, i palazzi sembrano concepiti dal Comintern e i tram un residuato bellico.
E tutto questo, dopo anni di attori americani tutti bellissimi e tutti fantastici anche quando devono interpretare un clochard, appare così fuori dal mondo da risultare esotico più delle eroine di Sex and the city ad Abu Dhabi.

La nostra vita di Daniele Luchetti

Claudio (Elio Germano) è un giovane operaio edile a cui muore l'amatissima moglie (Isabella Ragonese), dando alla luce il 3 figlio maschio. La reazione di Claudio alla sua incapacità di gestire il dolore e le emozioni (appannaggio della moglie) è quella di rimpiazzarle con le "cose". Preoccupato di guadagnare di più prende in sub appalto il cantiere di una palazzina nell'hinterland romano facendosi prestare i soldi dall'amico, un pusher dal cuore d'oro immobilizzato sulla sedia a rotelle (Luca Zingaretti).  Ma essendo un incapace, manda tutto rapidamente a puttane. La situazione sembra precipitare quando arriva in soccorso, come la cavalleria americana, la famiglia nelle vesti del fratello buono e un po' lento (Raul Bova) e la sorella iper materna (Stefania Montorsi) che gli prestano i soldi per metterci una pezza. Tutto si aggiusta e, imparata la lezione, Claudio riesce anche a riscoprire una comunicazione emotiva con i suoi figli. 
"La nostra vita" è uno di quei film di cui non so scrivere. Non posso dire che non mi sia piaciuto, non posso dire che mi abbia lasciato indifferente, eppure non convince fino in fondo. Gli attori sono bravissimi, persino Raul Bova sa recitare, Germano ha meritato la Palma d'oro e Zingaretti è strepitoso come al solito. Ci sono parti di dialogo molto divertenti,  sono ben scritte. E molte delle situazioni e del mondo descritto sono credibili, vere, toccanti. Eppure alla fine il film ti lascia con un senso di non riuscito, di incompletezza... con un po' di amaro in bocca. In gran parte la cosa è dovuta alle soluzioni finali di sceneggiatura: nel momento in cui tutto sembra perduto, in cui gli operai abbandonano il cantiere inferociti razziando tutto quello che c'è e gli amici violenti del pusher vogliono indietro i loro soldi, quando la tragedia greca insomma raggiunge il suo climax... basta una riunione familiare e spuntano fuori denari, aiuti e soluzioni e l'amore torna a vincere su tutto. Un po' troppo facile.
Ma forse il senso di incompletezza e di non riuscito è perchè alla base il film descrive un'Italia che di fatto oggi è incompleta e non riuscita, un'Italia ormai tutta composta da una piccola borghesia forse buona, ma incolta e materiale, così vera e desolante che persino la cattiva soluzione delle cose, l'intervento di famiglia, è l'unica soluzione praticabile; dove il buonismo è spesso sintomo di inadeguatezza culturale, il centro commerciale è visto come l'eden e la cialtroneria infinita. Forse è per questo che mi sono annoiata tanto a scrivere questo post, chi non si annoierebbe a parlare di un mondo così.


giovedì 13 maggio 2010

Robin Hood di Ridley Scott

Dunque, c'è Russell Crowe che fa il Gladiatore... pardon, Robin Hood.... Scusate mi sono confusa, però è vero che viene naturale visto che Russell fa un po' la stessa parte.
Comunque... c'è Robin Hood, ma non è come ce lo immaginiamo noi, alla macchia nella foresta di Sherwood, ma prima, molto prima. Quando combatte con Riccardo Cuor di Leone in Francia, ultimo stadio di una lunga Crociata. Poi giunge in Inghilterra sotto mentite spoglie, ma il caso e la fortuna gli fa non solo mantenere i panni non suoi, ma insieme a quelli eredita una moglie come Cate Blanchett e un padre come Max Von Sydow, che è uno dei pezzi meglio.
Poi si mette alla testa dei baroni inglesi che si ribellano a Giovanni Senza Terre e infine riesce a rimandare indietro i francesi invasori appena sbarcati sulle spiagge inglesi. Ma visto che la vita è dura, invece di godersi i fasti della vittoria, viene proscritto e considerato un fuorilegge. E qui inizia il divertimento e finisce il film. Quindi se proprio volete la roba del fuorilegge dovete andarvi a ripescare il Robin Hood di Disney.
Il film è un po' farraginoso. Nel tentativo di nobilitare e nobilitarsi, il duo Crowe-Scott ha scelto una strada complicata a livello di plot e sinceramente lunga, in cui si fa fatica a seguire tutti i temi e sotto-temi politici.
Quindi, non starò qui a sprecar gran fiato.
Le battaglie sono belle, lo sbarco dei francesi in Inghilterra somiglia moltissimo allo sbarco in Normandia, dove persino le imbarcazioni utilizzate ricordano i mezzi da sbarco americani, alcuni battibecchi fra Cate e Russell fanno brevemente sorridere e c'è una veduta aerea della foce del Tamigi che ho trovato molto bella. Il film si fa vedere ma non lo metterei nella top list di cose da fare se avete fretta e la crisi vi ha tagliato il budget dedicato alle attività ludiche. A meno che non rubiate il prezzo  del biglietto ai ricchi per darlo a voi poverelli.

mercoledì 28 aprile 2010

Cosa voglio di più di Silvio Soldini

Il film di Soldini è un film interessante, onesto, fatto bene, bravissimi attori, insomma tutto bene e corretto. Sarà per questo che è un film noioso?
La storia è presto detta: Anna, Rohrwacher, impiegata e Domenico, Favino, cameriere di un'azienda di catering, si incontrano per caso, si piacciono e iniziano una relazione clandestina (entrambi hanno un compagno) complicata dalla mancanza di denaro (hanno come unico luogo dove incontrarsi un motel che si rivela troppo costoso per i loro piccoli stipendi).
Il punto è che tutta l'onestà e la buona volontà che il regista ha messo nel cercare un soggetto che non fosse scontato e superficiale, il suo tentativo di parlare di gente normale, di piccoli accadimenti, di un amore al tempo della crisi ha fatto si che alla fine ci si chiede se non ci sia bisogno di qualcosa in più. E' proprio la quantità di micro eventi e di micro emozioni che rendono il film un po' vuoto. 
In teoria la noiosa quotidianità dovrebbe essere riscaldata dalla improvvisa e dilagante passione che si accende fra i due protagonisti e dalle difficoltà che la vita gli para dinanzi, che non sono, perno del film, solo legate ai due rispettivi partner traditi, ma soprattutto dalla mancanza di soldi. Come a dire che se avessero avuto mille euro in più al mese il tradimento avrebbe potuto essere più indolore, meglio vissuto. Tesi affascinante.
Il problema è che è difficile comprendere il senso di questa passione così trascinante. A parte delle ottime scopate, i due, tranne una volta, non sembrano scambiarsi emotivamente cose così profonde, se non le reciproche insoddisfazioni, le malinconie e molti messaggini. 
Insomma, qui non siamo nella regione di Ken Loach e dei sui film proletari ironici e spietati, ne vicini alla passione muta e divorante di un altro film di Soldini "Brucio nel vento" che per quanto non perfetto, aveva una sua poesia, una sua tensione.
Soldini pare più innamorato dell'idea di se stesso che sta realizzando un film in cui parla di una semplice impiegata che abita in una villetta nell'hinterland e di un cameriere che vive in un palazzone nella periferia di Milano sud, che del film in se stesso, della storia che racconta e dei suoi protagonisti. E' come se ci fosse una sorta di autocompiacimento nel non star facendo un film alla Veronesi o alla Muccino, film dove tutti sono comunque dei fichetti, solo che, nel lodevole intento di dar voce alla gente che figa non è, ha perso di vista il senso del racconto che svela qualcosa, del risvolto sorprendente, anche quando si raccontano piccole vite. E non bastano i corpi nudi, i soprassalti di uno sbatter d'ali e la commozione di un'alba vista da un balcone a riequilibrare la noia che ogni tanto mi ha preso durante le due ore del film. Sono troppo fichetta se lo dico?

Iron man2 di Jon Favreau

Dio cosa darei per essere un bambino di 11 o 12 anni. C'era di che gasarsi con tutte quelle scazzottate, i droni, i voli nel cielo col razzo al culo e le macchine di Formula 1 sul circuito di Monaco. Premetto che non ho visto il primo Iron Man di cui dicevano molto bene. Questo qui non mi sembra una genialata, tutto è un continuo di botte e arte varia intervallato da un Downey Jr sempre un filo troppo macchiettistico per i miei gusti, il suo Iron man non è poi così diverso dal suo Sherlock Holmes. L'uomo è comunque simpatico e io non sono contraria alle scazzottate. Ma il pezzo forte del film è invece  un meraviglioso Mickey Rourke nella parte del cattivo. La sua bruttezza (somiglia ormai alla povera Brenda di Marrazzo memoria) ha assunto vette di tale perfezione che gli si vorrebbe dare un Oscar solo per il lavoro che lui, e il suo chirurgo plastico, hanno offerto al cinema. Ricordavo di lui le mani e le unghie più brutte al mondo, fattore che mai, anche per un solo istante, me l'aveva fatto piacere al tempo del famoso 9" settimane e 1/2".  Eppure ora, con sopra i tatuaggi da galeotto russo, sono disgustosamente perfette mentre si agitano sulla tastiera di un computer o mentre assembla chip e fili elettrici. Presto, un Oscar a Mickey e anche alle mani! Per il resto non starò qui a farvi perdere tempo. Perdetelo voi portandoci i vostri figli 11enni che vi ringrazieranno con un sorriso che farebbe squagliare anche la mamma d'acciaio che siete.

martedì 27 aprile 2010

Gli amori folli di Alain Resnais

All'inizio ho pensato, ma con tenerezza sia ben inteso, bè che film vecchietto.
Nonostante i titoli di testa mi fossero piaciuti, alcune scene all'inizio mi sembravano un po' fanè. 
E poi si va avanti. E a poco a poco ti dici, no ma cosa vado a dire; mi ero sbagliata, no, questo film è di una modernità assoluta. E la stoffa del grande regista la si vede nelle pieghe dell'ambientazione che può sapere di vecchiezza, ma è solo folle. Fra le rughe dei due attori, vecchi per davvero, ma con una dignità e un'effervescenza che Hugh Grant e Sarah Jessica Parker di cui ho parlato tempo fa, si sognano, con tutte le loro mossettine.
E nei dialoghi bizzarri e vivacissimi, scritti  con un'intelligenza al limite della cerebralità che però riesce a non essere mai fredda o fine a se stessa ma sempre divertente, leggera. Così si finisce per trovare in tutta la pellicola un'inaspettata modernità, un'ironia e un non sottostare al solito, allo scontato, che stupisce e incanta al tempo stesso. Insomma, la firma  è chiaramente di Resnais. D'altronde Mon oncle d'Amerique era un film meraviglioso, per me capitale.
Tutto è inaspettato in questo film e la sua francesitudine rinfranca in confronto alla triste italianitudine di storie già tutte viste e sentite.
Il titolo originale è "Le erbe folli" cioè quelle che spaccano l'asfalto, quelle che si insinuano nella roccia. Molto più bello della solita insulsa traduzione italiana. Sabine Azema e André Dussolier incrociano le loro vite grazie al furto di un portafoglio, rubato a Sabine, ritrovato e restituito da André. Il quale però decide di non concludere qui l'incidente ma esige una conoscenza, un approfondimento. Esige di non perdere l'occasione di un cambiamento. Di spaccare l'asfalto e la pietra con la potenza delle sue radici. E quindi nonostante moglie e figli, fantastica sulla donna e la costringe ad accettare il suo amore. Gioca pesante, siamo quasi allo stalking, ma è anche diretto, folle, imprevedibile. Con persino l'avvallo della moglie. Il finale è in cielo. Il film è bello.

mercoledì 31 marzo 2010

Fantastic Mr Fox di Wes Anderson

State cucinando lo stufato o siete in ufficio. Forse state sbucciando una mela o semplicemente facendo il manicure. Bene, in questo momento lasciate bruciare lo stufato e rinunciate a limarvi le unghie e correte al cinema. C'è da vedere questo film, una chicca. Una vera chicca. Che vale lo stufato.
La storia è tratta da un libro di Roald Dahl, lo scrittore di origine norvegese con un nome da purè di lenticchie indiano. Il film è animato in stop motion, in italiano "a passo uno", cioè quando filmi  dei pupazzi mentre si muovono a poco a poco (lo spiego per le rape come me).  Il risultato è perfetto e riposantemente retrò dopo i fasti della computer grafica e del 3D. Siamo tornati ai tempi della plastilina del Fernet Branca.
Mr e Mrs Fox vivono con il figlio Ash e il nipote Kristofferson in un grande albero. Mr Fox ha da tempo abbandonato l'attività di ladro di polli per amore della famiglia, ma dopo anni, spinto dall'istinto cacciatore,  decide di tentare un ultimo grande colpo ai danni dei tre sgradevoli fattori che hanno le proprietà di fronte all'albero di Fox. La vendetta dei tre uomini sarà durissima e metterà a repentaglio tutta la popolazione di animali sotterranei, dall'opossum al tasso al ghiro. Ma alla fine Mr Fox insieme ai suoi amici, grazie al suo istinto ferino riuscirà ad avere la meglio.
Mr Fox veste in completo doppiopetto di velluto a coste e camiciola un po' anni '50, proprio come il suo regista Wes Anderson (è quello dei Tenembaum), famoso damerino. Il figlio Ash va in giro con dei gilerini fatti a maglia e un asciugamano al collo portato come un mantello, il nipote Kristofferson fa yoga e meditazione e Mrs Fox dipinge paesaggi con nuvole e lampi.
Non c'è un singolo dettaglio che non sia delizioso, intelligente, divertente, surreale. Come quando il figlio Ash, invidioso del fatto che tutti hanno un passamontagna per le rapine, se ne confeziona uno con un calzino e quindi per tutto il tempo va in giro con la sagoma di un piede sopra la testa come una cresta di gallo. Ma è una goccia nel mare, faremmo notte a dirli tutti.
La sceneggiatura è lieve, ironica, dolce. Così tanto che mi è successo l'inspiegabile.
Verso la fine del film, c'è l'incontro a distanza di Mr Fox - che sta fuggendo in sidecar dai cattivi insieme a figlio nipote e amico opossum - e un lupo solitario che si scorge lontano. Il gruppetto si ferma un attimo e Mr Fox, chissà perchè in francese, urla al lupo "Pensez vous que l'hiver sera dur?". 
E poi alza il pugno chiuso in segno di saluto. 
Bè, chiedo perdono, ma forse perchè sembrava la celebrazione dello spirito ferino o forse perchè oggi, alla luce di risultati elettorali, noi tutti sappiamo che l'inverno sarà duro, ecco, mi vergogno a dirlo, ma mi sono spuntate le lacrime. 
E quando sono tornata a casa, a sera inoltrata in motorino, non so perchè, queste lacrime sono continuate a scendere per tutto il tragitto. Ma non per la politica, non più per quello, ma perchè in qualche sacca nascosta del mio animo, questo sciocco film animato, con dei buffi animali vestiti come dei gagà, è andato a pescare delle inspiegabili emozioni, fatte di spiriti liberi, di peli e polli, di frasche e code di volpe. Di gentilezza e sense of humor, di festa visiva e cazzeggio intellettuale. 
Questo film ha pescato qualcosa: me, che come un ghiotto salmone, son finita in bocca alla volpe.

giovedì 25 marzo 2010

Happy family di Gabriele Salvatores

Pare che ci siano recensioni che plaudono, pare che si scomodi Pirandello, pare che piacerà... io l'ultimo film di Salvatores l'ho trovato agghiacciante. Una boiata pazzesca. Inutile, gratuita, senza arte nè parte. Il testo è tratto da una commedia teatrale e purtroppo si vede... non si è andati al di là di questo. Guardando Happy family sembra come se il cinema, per la maggioranza dei registi italiani, sia una cacca da prendere con le tenaglie per snaturarne qualsiasi dignità di racconto, di senso, di compimento. E soprattutto continuano a perpetrare uno stile vecchio come il cucco. Qualche post fa vi parlavo dei bellissimi titoli d'apertura dell'austriaco Revanche. Ecco, per darvi un'idea, i titoli di Salvatores hanno come sfondo un sipario teatrale rosso che ricorda i film di Totò e i titoli scritti in corsivo come per una partecipazione di nozze. Sarà pure voluto, ma che pena.
La press release apre con una citazione di Groucho Marx (che se lo sapesse chiederebbe i danni dalla tomba o brucerebbe con il suo sigaro l'intera baracca) che recita: "preferisco leggere o vedere un film piuttosto che vivere. Nella vita non c'è una trama".
Non so nella vita, ma una trama non c'è neanche nel film di Salvatores, quindi a questo punto non resta che leggersi un buon libro... va bene anche il ricettario di Suor Germana, sempre meglio. 
Persino nella suddetta press realise non riescono a riportare la trama, solo frasi tipo "Happy family è una confessione camuffata, una commedia che parla della paura di essere felici". Cazzate. Non parla di niente. Un niente che provo a riassumere.
Ci sono due famiglie (Bentivoglio e Buy da una parte e Abatantuono e Carla Signoris dall'altra) che si incontrano una sera a cena perchè i due figli adolescenti si vogliono sposare. Il pretesto è di una banalità sconcertante, anche perchè si capisce immediatamente che il ragazzino è gay lontano un miglio e se lui ancora non lo sa, noi lo sappiamo appena apre bocca. Oltre questo incontro e la preparazione all'incontro non c'è molto altro. Ah, si dimenticavo: deus ex machina del meccanismo è Ezio (De Luigi) uno scrittore che teoricamente scrive la storia che stiamo vedendo, ma in realtà finisce per viverla in prima persona a causa di un banale incidente in bicicletta. Per aggravare ancor di più il senso teatrale del film, in varie occasioni i personaggi "bussano" al computer di Ezio pretendendo parti più ricche, scene in più. Ed è qui che viene citato Pirandello, un altro poveraccio che starà rigirandosi nella tomba e questa dovrebbe essere la trovata spiritosa, la soluzione fuori dagli schemi del film.
Il tutto nella cornice di una Milano estiva fotografata benissimo, ma come una cartolina, con quei colori super saturi e con quel gusto da fumetto che aveva un po' il film Amelie. C'è anche una sequenza di immagini della città notturna in un bellissimo bianco e nero che di per se stesse sarebbero magnifiche, ma che nel contesto perdono di ogni significato.
Gli attori sono tutti bravi, ma sotto sotto si capisce che sono i primi a non sapere bene cosa ci stanno a fare. Abatantuono fa sbellicare dalle risate ogni volta che apre la bocca, ma se fosse in mutande a casa sua cazzeggerebbe nella stessa identica maniera. 
Agli sceneggiatori italiani rivolgo una preghiera. Guardatevi un po' di serial americani per capire come funzionano i meccanismi narrativi. Credo che "Barbie e la magia del lago" sia un film meglio costruito di questo. Ed è della solita ochetta che si parla.


mercoledì 17 marzo 2010

Avatar di James Cameron

Non ricordo molto della mia infanzia. Quelle cose tipo "ah si, la magia della mia infanzia, oh si quando la fantasia per me era tutto... vedo rumori sento colori... un mondo meraviglioso". Insomma, io quelle stronzate lì non me le ricordo. Solo poche, confuse memorie: tutto un gran picchiarmi con i miei fratelli, andare a scuola, arrampicarmi sugli alberi, sentirmi un alieno rispetto agli altri e leggere tutto quello che trovavo in giro. Punto. 
Sarà per questo che mi è piaciuto Avatar. Perchè si vedono rumori e si sentono colori. C'è quello che forse solo qualche bambino particolarmente geniale o inspiegabilmente venuto a contatto con del peyote poteva immaginare, sognare, creare.
Non sto neanche a parlare della storia, chi se ne frega, Cameron ne ha raccontata una, poteva raccontarne mille altre. Certo, sul finale ci sono alcune cosucce imbarazzanti (non la battaglia, per carità), certo le scene di preghiera intorno al grande albero potevano, dovevano essere evitate. Ma, ripeto, chi se ne frega. E poi il buon vecchio Cameron è lineare, se scrive un plot tradizionale e tradizionalista, non fa finta che sia qualcosa di diverso. Per intenderci: rispetto a Tim Burton che per tutto il film di Alice è come se ammiccasse in continuazione dicendo "bè, però guarda come io te la cambio la storia, bè però qui c'è un sottotesto che devi capire, bè però io qui sono più intelligente e innovativo di quello che è Alice e Lewis Carroll, bè però..... etc etc" e poi però fa ballare l'hip hop al Cappellaio Matto, Cameron non vuole fare l'intelligentone, non vuole darti niente di meno di un vero polpettone americano con un classico finale da "arrivano i nostri". Insomma, non millanta: lui fa quella cosa lì.
Solo che la fa da dio. Proprio dio, non il suo vice.
Sfido chiunque ad avere la sua capacità immaginifica, di poter inventare il mondo di Avatar con quelle piante, quei fiori, quei colori, quelle montagne. E poi il gran treccione dei Na'vi che si connette con animali cose e città, e poi la notte popolata da foglie luminescenti, e i voli in picchiata degli uccelli-pipistrelli Ikran, e poi le manone e i piedoni del popolo blu, i loro fianchi sottili, e poi e poi... e poi è difficile starci dietro. 
Ecco, se avessi qualche ricordo della mia fantasia infantile, vorrei che fosse qualcosa di molto simile al mondo di Avatar. Avrei voluto restare sospesa come le sue montagne in un'atmosfera di leggera inconsistenza. Avrei voluto che il mondo si illuminasse sotto i miei piedi. Avrei voluto combattere gli elicotteri con le frecce colorate. Avrei voluto abitare in un albero-casa invece che in un condominio. 
Ed è quello di cui ringrazio James Cameron e chi si è inventato il film insieme a lui. Di aver immaginato il mondo che io non sono stata capace di sognare.

lunedì 15 marzo 2010

Precious di Lee Daniels

Precious è una ragazza obesa di 16 anni (e quando dico obesa dico che non le si vedono gli occhi per la maggior parte del tempo, perchè sono sommersi dalla ciccia), che fa una vita da schifo. Vive con una mamma pazza assassina che le lancia pesanti oggetti contro il capoccione, il padre la violenta e la mette incinta dua volte. Dal primo stupro è nata una bambina down che Precious chiama affettuosamente Mongo e che vive con la nonna materna. Il racconto inizia dalla seconda gravidanza, quando a scuola se ne accorgono e, grazie anche alla segnalazione di un maestro che sostiene che la ragazza è brava in matematica, la preside invece di buttarla fuori e basta, si fa carico di segnalarla per un programma di insegnamento alternativo. 
Stop, stop. Interruzione con mio momento razionale: io non capisco se sono l’unica ormai che sente sempre di più il bisogno di un senso logico nei copioni o no. Ora, com’è possibile che nella scuola di Precious si accorgano solo adesso che qualcosa non va e nessuno invece ha sollevato questioni anni prima quando, presumibilmente a solo 11/12 anni la ragazza dà alla luce la prima figlia? E come mai nessuno si è accorto prima delle sue capacità in matematica, lasciandola vegetare per anni su un banco di scuola, senza che sappia leggere e scrivere? Poi, quando finalmente Precious arriva nella nuova scuola, come d'incanto le cose cambiano: trova compagne di classe messe ancora peggio di lei con cui riesce a instaurare un rapporto e una maestra super figa, a partire dal fisico, che neanche Robin Williams con Oh capitano, mio capitano (ma lui era meno bello). 
Quindi ecco, non posso dire che il copione mi abbia convinto, sulla carta era la solita storia super drammatica senza mezzi toni, ma mi pare che dopo "Anna dei miracoli" queste storie qui non si possano più fare. 
Eppure Gabby, la ragazza molto grassa, e Mo'nique, la mamma molto stronza, sono anche molto brave. E il povero Lee ce la mette veramente tutta a cercare di non fare un film patetico: si inventa i sogni di Precious, che poi sono i sogni di Amici, s'inventa le musiche molto funky nero, s'inventa una leggerezza, s'inventa persino il momento "La Ciociara", dove fa il remake di una scena del film di de Sica, facendo recitare in italiano Precious e la mamma. Sebbene le due riescano a parlare in un italiano neanche malaccissimo, l'effetto è assurdo.
Così il film te lo guardi con molta partecipazione e ti commuovi anche, sebbene la cosa ti dia fastidio, almeno a me dà fastidio commuovermi al cinema, soprattutto quando il sottotitolo è: "te voglio fa chiagne". Sin dai tempi di "Anna dei miracoli", giustappunto. 
A me piace commuovermi per cose inaspettate, mica per quello di cui non posso fare a meno di piangere. E nel film alla fine c'è troppa Oprah, la star americana dei talk show del pomeriggio, che è la produttrice della pellicola.  
Per cui andate a vedere Precious, vi piacerà, e portatevi i fazzoletti; ma un po', sotto sotto, arrabbiatevi anche, perchè certe storie sono così tristi e tremende che voi non ci potete fare niente, solo cercare di non piangere e restare incazzati.

martedì 9 marzo 2010

Appuntamento con l'amore di Garry Marshall

La sera dell'anteprima di Appuntamento con l'amore, andando al cinema in motorino, ho incrociato un tizio, anche lui in motorino, che davanti a me lasciava una scia di dopobarba d'indescrivibile potenza. Ora, io so apprezzare i profumi, ma bisogna saperli dosare con parsimonia. 
Avrei voluto fare lo stesso discorsetto, ma parlando di zucchero in questo caso, a Garry Marshall. Che, ricordiamocelo, è stato il regista di Pretty woman. E, dimentichiamocelo, di altri innumerevoli film insulsi tipo Pretty princess e Principe azzurro cercasi. E quindi: "Attento Garry, se ti viene il diabete poi sei costretto a farti d'insulina per il resto della tua vita. Parsimonia, Garry".
Come già espresso in questo blog, di norma non sono contro i filmetti rosa, tutt'altro. Trovo che ce ne siano di molto onesti e ben scritti e trovo che a tarda sera o in una piovosa domenica pomeriggio siano un toccasana per l'animo depresso. Ma non è il caso di Appuntamento con l'amore. 
Il genere è di quelli classici in cui mille storie in qualche modo (e in questo caso con il più flebile dei pretesti) di ritrovano collegate l'una a l'altra e come in molti di questi casi c'è un dispiego di forze veramente singolare (da Shirley McLaine a Julia Roberts, da Kathy Bates a Jessica Alba etc etc... gli uomini non ve li cito che non c'è bisogno). 
Il problema, quando metti insieme tutti questi nomi come fosse la lista della spesa, è che non c'azzeccano niente. Le coppie sembrano formate da una specie di matchmaking mama impazzita che si è nottetempo impadronita del copione. Jessica Biel (nella vita la fidanzata di quel simpatico ed esile biondino Justin Timberlake) finisce con il macho nero, ex Malcom X, di Jamie Foxx. E fuori uno... 
Jennifer Garner finisce con Ashton Kutcher (il marito bambino di Demi Moore) e sembra sua madre, molto più di Demi. E due... 
Eric Dane (per le esperte, il chirurgo plastico super scopatore di Grey's anatomy) fa il gay con Bradley Cooper ed è la coppia di omosessuali più improbabile che mi sia stato dato di vedere. 
Potrei andare avanti così con tutto il cast, ma vi risparmio. 
Il tutto con testi inutili, riprese che fanno credere che Los Angeles sia la città più brutta dell'universo e meccanismi di una noia mortale. Una delle poche cose guardabili del film sono i vestitini che indossano quasi tutte le fanciulle, Jessica Biel in testa, che fanno invidia alle italiane ormai schiave di Zara e H&M.
In coda a tutto ciò vorrei aggiungere che fin quando non andavo mai al cinema, giusto quelle due o tre volte ogni sei mesi in cui mi sceglievo accuratamente i film, vivevo nella magica convinzione che il cinema, li fuori dalle porte di casa mia, serbasse altrettanti tesori inestimabili che, per mia pessima organizzazione e mancanza di baby sitter, non riuscivo a raccogliere a piene mani. 
Bè, mi sbagliavo: la quantità di cagate che ci sono in giro .....

Mine vaganti di Ferzan Ozpetek

Mi verrebbe da dire, il solito Ozpetek. Il che non vuole essere un insulto, ma neanche una celebrazione. Godibile, leggero e melodrammatico al tempo stesso, ho anche riso molto durante la proiezione, ma poi me lo sono prontamente dimenticato. 
La storia, in brevissimo (non leggetela se volete conservarvi il colpo di scena): Tommaso (Scamarcio), figlio di una ricca famiglia borghese di Lecce, torna a casa da Roma dove studia, pronto a confessare la sua omosessualità, quando, nella serata scelta per la rivelazione, viene superato dal fratello maggiore Antonio (Preziosi) che a sua volta si confessa gay, rubandogli il momento. Reazioni indignate della famiglia, semi infarto del babbo, Antonio scacciato di casa. Tommaso si trova dunque a doversi sobbarcare le sorti del pastificio di famiglia e a tacere sulle sue scelte di vita. Viene affiancato nel lavoro dalla socia, Alba- Grimaudo, segretamente innamorata di lui e a poco a poco, preso dalla vita di tutti i giorni, Tommaso sembra dimenticare la sua vera identità. L'arrivo per qualche giorno dei suoi amici gay e del fidanzato, e la morte dell'amatissima nonna lo spingeranno a tornare alla sua vera vita. 
Bè vabbè... c'è di buono che Ozpetek, al quale il trash piace, se ne frega se un attore  è etichettato come di serie B o televisivo e ci dà dentro con la Grimaudo (non perfetta, ma molto carina nonostante il suo personaggio venga poi mollato per strada, senza alcun approfondimento psicologico), Alessandro Preziosi (mi è sembrato meglio del solito), Lunetta Savino (ottima), Elena Sofia Ricci (brava) e un irriconoscibile Daniele Pecci nei panni di uno degli amici gay, scheccatissimo, di Tommaso. La Minaccioni che fa la servetta con accento pugliese è perfetta anche. Ozpetek  ha il merito di osare e di usare questi attori senza farsi le menate se sono gli attori "giusti" e politically correct e in questo bisogna dargli atto di un certo coraggio. Molto meno per quello che riguarda genere e ambientazione. Pare che Ozpetek non si sappia muovere se non in ambienti rassicuranti, comodi e super tradizionalisti a dispetto del suo costante tentativo di épater les bourgeois  con i suoi balletti di checche semi nude o con le canzoni anni '60.
In questi ambienti non proprio da bracciante agricolo, appare piuttosto eccessiva la reazione del capofamiglia all'omosessualità del figlio. 
E il genere commedia eccessiva fa sì che quando poi arrivano le tragedie, si rimane un po' spaesati, e non si metabolizzano poi molto, anche perchè non pare essere il pensiero primario del regista. 
Alla fine, Mine vaganti è un film divertente, che nel ritorno verso casa viene, seppur con sentimenti di stima e simpatia, dimenticato come il buon creme caramel, dolce leggero e non impegnativo per antonomasia,  mangiato poco prima per cena.